LA SPIRITUALITA’ DI SANTA CHIARA D’ASSISI

La spiritualità clariana : “Vivere secondo la perfezione del santo Vangelo, in santa unità e altissima povertà”

La Chiesa è come un grande albero, piantato da Dio nel campo del mondo, i cui molteplici rami rappresentano le varie forme di vita che lo Spirito Santo ha suscitato nel corso dei secoli.

Ogni spiritualità è incentrata sulla Persona di Gesù Cristo e sul santo Vangelo, ma ciascuna ne mette in risalto alcune peculiarità, alcuni tratti caratteristici che la rendono unica e la differenziano dalle altre.

La spiritualità clariana si caratterizza, in primo luogo, come chiamata a vivere secondo la perfezione del santo Vangelo, in santa unità e altissima povertà con un deciso riferimento a Cristo, come unico e vero programma di vita.

La santa unità

Guidata da Chiara, la comunità raccolta in San Damiano scelse di vivere secondo la forma del santo Vangelo in una dimensione contemplativa claustrale, che si contraddistingueva come un “vivere comunitariamente in unità di spiriti” (Regola di santa Chiara, Prologo, 5).

La particolare comprensione che Chiara dimostrò del valore dell’unità nella fraternità scaturisce da una matura esperienza contemplativa del Mistero trinitario.

L’autentica contemplazione, infatti, non chiude nell’individualismo ma realizza la verità dell’essere uno nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo.

Chiara non solo impostò nella sua Regola la vita fraterna sui valori del reciproco servizio, della partecipazione, della condivisione, ma si preoccupò che la comunità fosse anche saldamente edificata sull’“unità della scambievole carità e della pace” (cap. IV, 22), e ancora che le sorelle fossero “sollecite di conservare sempre reciprocamente l’unità della scambievole carità, che è il vincolo della perfezione” (cap. X, 7).

Era infatti convinta che l’amore scambievole edifica la comunità e stimola ad una crescita nella vocazione; perciò esortava nel Testamento: “Amandovi a vicenda nell’amore di Cristo, quell’amore che avete nel cuore dimostratelo al di fuori con le opere, affinché le Sorelle, provocate da quest’esempio, crescano sempre nell’amore di Dio e nella mutua carità” (59-60).

Questo valore dell’unità Chiara lo percepì anche nella sua dimensione più vasta. Per questo volle che la comunità claustrale fosse pienamente inserita nella Chiesa e ad essa solidamente ancorata con il vincolo dell’obbedienza (cfr Regola, cap. I, XII). Ella era ben consapevole che la vita delle claustrali doveva diventare specchio per altre Sorelle chiamate a seguire la medesima vocazione, nonché testimonianza luminosa per quanti vivevano nel mondo.

I quarant’anni vissuti all’interno del piccolo monastero di san Damiano non restrinsero gli orizzonti del suo cuore, ma dilatarono la sua fede nella presenza di Dio, operante la salvezza nella storia. Sono noti i due episodi in cui, con la forza della sua fede nell’Eucaristia e con l’umiltà della preghiera, Chiara ottenne la liberazione della città di Assisi e del monastero dal pericolo di un’imminente distruzione.

L’altissima povertà

Soltanto la scelta esclusiva di Cristo povero e crocifisso, che intraprese con ardente amore, spiega la decisione con cui santa Chiara s’inoltrò nella via dell’“altissima povertà”, espressione che racchiude nel suo significato l’esperienza di spogliamento, vissuta dal Figlio di Dio nell’Incarnazione.

Con la qualificazione di “altissima” Chiara voleva in qualche modo esprimere l’abbassamento del Figlio di Dio, che la colmava di stupore: “Tale e così grande Signore – annotava – scendendo nel seno della Vergine, volle apparire nel mondo come uomo spregevole, bisognoso e povero, affinché gli uomini – che erano poverissimi e indigenti, affamati per l’eccessiva penuria del nutrimento celeste -, divenissero in Lui ricchi col possesso dei reami celesti” (1 Lett. ad Ag., 19-20).

Essa coglieva questa povertà in tutta l’esperienza terrena di Gesù, da Betlemme al Calvario, dove il Signore “nudo rimase sulla croce” (Testamento di santa Chiara, 45).

Seguire il Figlio di Dio, che si è fatto nostra via, comportava per lei di non desiderare altro che di inabissarsi con Cristo nell’esperienza di un’umiltà e di una povertà radicali, che coinvolgevano ogni aspetto dell’esperienza umana, fino allo spogliamento della Croce.

La scelta della povertà era per santa Chiara un’esigenza di fedeltà al Vangelo, tanto da determinare la richiesta al Papa di un “privilegio della povertà”, quale prerogativa della forma di vita monastica da lei iniziata. Inserì tale “privilegio”, tenacemente difeso per tutta la vita, nella Regola che ricevette la conferma papale all’antivigilia della sua morte con la Bolla Solet annuere del 9 agosto 1253.

Lo sguardo di Chiara rimase sino alla fine fisso sul Figlio di Dio, del quale contemplava senza sosta i misteri. Il suo era lo sguardo amante della sposa, colmo del desiderio di una condivisione sempre più piena. In particolare, si immergeva nella meditazione della Passione, contemplando il mistero di Cristo, che dall’alto della Croce la chiamava e l’attirava.

Così scriveva: “O voi tutti, che sulla strada passate, fermatevi a vedere se esiste un dolore simile al mio; e rispondiamo, dico a Lui che chiama e geme, ad una voce e con un solo cuore: Non mi abbandonerà mai il ricordo di te e si struggerà in me l’anima mia” (4 Lett. ad Ag., 25-26). Ed esortava: “Lasciati, dunque, bruciare sempre più fortemente da questo ardore di carità!… E grida con tutto l’ardore del tuo desiderio e del tuo amore: Attirami a te, o celeste Sposo!” (ivi, 27.29-32).

Questa piena comunione con il mistero di Cristo la introdusse nell’esperienza dell’inabitazione trinitaria, in cui l’anima prende sempre più viva coscienza della dimora di Dio in lei: “Mentre i cieli con tutte le altre cose create non possono contenere il Creatore, l’anima fedele invece, ed essa sola, è sua dimora e soggiorno, e ciò soltanto a motivo della carità, di cui gli empi sono privi” (3 Lett. ad Ag., 22-23).

Vivere secondo la perfezione del santo vangelo, in santa unità e altissima povertà, è il cuore del carisma clariano, che contiene in sé tutti gli altri aspetti del carisma, quali: la preghiera, la contemplazione, il silenzio, l’ascolto, l’accoglienza, il lavoro.

Sr. Cristiana Scandura osc

S. CHIARA D’ASSISI – VITA

Santa Chiara d’Assisi, vissuta nel XIII secolo, contemporanea di san Francesco, è una delle sante più amate dalla cristianità.

Chiara nasce in Assisi nel 1193 dalla nobile famiglia di Favarone degli Offredducci e da Ortolana. La sua famiglia apparteneva all’aristocrazia ed ella crebbe in un ambiente sano e agiato.

Di carattere mite, umile e sensibile, fin dalla fanciullezza visse dedita alle opere pie: alla preghiera, alla mortificazione, alla carità verso i poveri che beneficava privandosi non di rado non solo del superfluo ma anche del necessario in loro favore.

È ancora bambina quando in città scoppia una guerra civile tra i nobili e la nascente borghesia e Chiara deve rifugiarsi, con la sua famiglia, a Perugia, dove rimane fino alla giovinezza.

Tornata ad Assisi, con il desiderio di appartenere solo a Cristo è attratta dalla radicalità della scelta di vita del concittadino Francesco di Bernardone, tra i cui seguaci c’è anche Rufino, cugino di Chiara e seguendone la vicenda da vicino, comincia a nascere nel suo cuore il desiderio di abbracciare anch’ella quella forma di vita evangelica così radicale.

Chiara aveva circa dodici anni quando Francesco, con un gesto pubblico sulla piazza di S. Rufino, antistante l’episcopio, rinunciava all’eredità paterna spogliandosi anche dei vestiti, e, sotto la protezione del vescovo, che prontamente coprì la sua nudità con il proprio mantello, dava inizio alla sequela di Cristo povero e crocifisso. È molto probabile che Chiara abbia visto con i propri occhi questa scena, visto che la sua abitazione si affacciava proprio sulla piazza di San Rufino.

Più volte Chiara, accompagnata da Bona di Guelfuccio, incontra segretamente Francesco. In questi colloqui, Francesco predicava a Chiara che si convertisse a Cristo, instillando nelle sue orecchie la bellezza delle nozze con Cristo.

In realtà per Chiara non si può parlare di una vera e propria conversione perché fin dalla fanciullezza ella conduceva una vita santa. Nel suo caso la conversione si può intendere come un passaggio dal bene al meglio, lasciando le sicurezze terrene della sua condizione agiata per abbracciare Cristo povero e crocifisso.

Dai colloqui avuti con Francesco, Chiara maturò la propria decisione, che poi attuò con fermezza incrollabile.

Nella notte tra la domenica delle Palme e il lunedì santo del 1210 o 1211, fugge dalla casa paterna attraverso una porta secondaria ostruita da pesanti travi e da pietre che, con le sue sole forze riesce ad aprire e si avvia verso Santa Maria degli Angeli, dove l’attendono Francesco e i suoi frati.

Proprio alla Porziuncola, con il taglio dei capelli per le mani di Francesco, Chiara inizia ufficialmente una vita di consacrazione a Cristo. Questo atto, ponendola sotto l’obbedienza di Francesco, sottolinea la stessa identità di vocazione e di carisma, come attesta Tommaso da Celano: “Un solo e medesimo Spirito ha fatto uscire i frati e quelle signore poverelle da questo mondo” (2Cel 204: FF 793).

La giovane Chiara aveva manifestato in questo modo pubblicamente la propria scelta, dichiarando con il suo gesto di voler tradurre in termini nuovi, originali e al femminile, l’esperienza religiosa vissuta e proposta da Francesco.

Dobbiamo tener presente che all’epoca di questi fatti Francesco non era più ritenuto il giovane uscito di senno che aveva scelto di abbandonare lo stato di ricco mercante per abbracciare la povertà, ma era già diventato il punto di riferimento di un piccolo gruppo religioso che poteva vantare un incoraggiamento papale.

Dopo la fuga dalla casa paterna, Chiara dovette scontrarsi con la dura reazione della famiglia e, molto probabilmente per proteggerla, Francesco la condusse subito al monastero benedettino di S. Paolo a Bastia Umbra. Difatti, di lì a poco, i parenti di Chiara fecero ivi irruzione con l’intento di riportarla a casa, ma lei, per tutta risposta, si tolse il velo mostrando la propria tonsura, come segno inequivocabile che ormai aveva intrapreso la vita della consacrazione e della penitenza e si era posta perciò sotto la giurisdizione ecclesiastica.

Non molto tempo dopo Chiara si sposterà a S. Angelo in Panzo, un’altra comunità benedettina, dove viene raggiunta dalla sorella Agnese che le manifesta la volontà di condividere l’identica sequela di Cristo.

Anche qui Chiara e la sorella verranno raggiunte dai familiari che, con un vero e proprio blitz, cercheranno di riportare a casa con la forza Agnese, ma non ci riusciranno per le preghiere delle due sorelle, che il Signore esaudisce.

Vista la fermezza di Agnese, il beato Francesco di sua mano le tagliò i capelli e, insieme alla sorella, la istruì nella via del Signore (cfr LsC 16: FF 3206).

Dopo questi fatti Chiara ed Agnese si trasferiscono definitivamente a San Damiano e qui, in poco tempo le due sorelle vengono raggiunte da molte fanciulle della Valle Spoletana che desiderano condividere la loro scelta: si forma così ben presto una vera e propria comunità, di cui Chiara, per volontà di Francesco, sarà Abbadessa fino alla morte.

Con lei nasce una nuova forma di vita, quella delle Sorelle Povere, poi chiamate Clarisse.

La sua vita si consuma nel piccolo chiostro del monastero di San Damiano, in una gioiosa sequela di Cristo povero e crocifisso.

Nel 1225, all’età di trent’anni per Chiara inizia una lunga malattia che la renderà inferma. Malgrado ciò continua ad essere per le sue sorelle una madre premurosa, una guida sapiente e un esempio di vita veramente evangelica.

Il 4 ottobre 1226, Francesco, già gravemente provato nella salute e stimmatizzato, lascerà questo mondo e due anni dopo, nel 1228, Papa Gregorio IX presiede la sua canonizzazione nella città di Assisi.

In questa occasione egli si reca a San Damiano per convincere Chiara ad accettare possedimenti, ma essa con determinazione, volendo rimanere fedele alla povertà radicale a cui il Signore la chiamava, non solo non accoglie questa proposta, ma anzi riesce ad ottenere il privilegio della povertà, cioè il privilegio di non avere alcun possedimento, affidandosi unicamente alla Provvidenza di Dio.

Nel 1218 o 1219 Chiara e la sua comunità avevano ricevuto le Costituzioni del cardinal Ugolino e la Regola di San Benedetto, ella però desidera e chiede l’approvazione di una Regola, da lei stessa scritta, che esprime l’intuizione e l’ispirazione datale dal Signore tramite Francesco.

Chiara è la prima donna, nella storia della Chiesa, a scrivere una Regola per donne e ne riceve l’approvazione appena due giorni prima del suo beato transito.

La “forma di vita” di Chiara viene “esportata” dalle prime sorelle già nel 1218: con l’apertura di monasteri a Lucca, Siena e Firenze. Sarà fatta conoscere anche tramite la predicazione dei frati sia in varie regioni d’Italia, dove ben presto nasceranno monasteri di “Povere dame” in Umbria, Toscana, Marche, Lombardia e Veneto, sia oltralpe, in Francia, Spagna e Boemia.

Nel 1234 anche un’insigne principessa, Agnese figlia del re Ottocaro I di Boemia, volle entrare in un monastero di “Povere dame”, da lei stessa fondato a Praga. Agnese poi intratterrà con Chiara una fitta corrispondenza, di cui, però, possediamo soltanto quattro lettere indirizzate da Chiara ad Agnese.

Degno di essere ricordato è anche il rapporto che Chiara ebbe con la sua città. A parte le numerose grazie di guarigione, soprattutto in favore di bambini, da ascrivere alla potente intercessione di Chiara, nella memoria dei posteri rimarrà indelebile l’intervento di Chiara in favore della città assediata dalle truppe di Federico II; in due diverse occasioni, nel 1240 e 1241, Assisi fu sul punto di capitolare: in entrambe le circostanze, però, la città venne liberata per merito dell’intercessione di Chiara.

L’11 Agosto 1253, Santa Chiara compì la sua esistenza terrena nel monastero di San Damiano dove aveva praticamente passato 41 anni della Sua vita.

Al Suo capezzale c’erano alcuni dei primi compagni di San Francesco: Frate Angelo, Frate Leone e Frate Ginepro.

Le Sue ultime parole furono: “Va’ sicura e in pace, anima mia benedetta! Perché Colui che ti ha creato, ti ha anche santificato, e sempre ti ha guardato come una madre il figlio piccolino che ama. E Tu, Signore, sia benedetto perché mi hai creata!”

La salma di Chiara, come accadde per quella di San Francesco, fu trasportata nella chiesa di San Giorgio in Assisi.

Appena due anni dopo, il 15 agosto 1255, il papa Alessandro IV la proclamerà santa nella cattedrale di Anagni.

Da tutta la vita di Chiara emerge il suo essere profondamente innamorata di Cristo. Un amore, il suo, tenero e appassionato, fresco ed entusiasta, che tale rimarrà fino alla fine della sua vita, anzi che conoscerà un crescendo man mano che si avvicinerà al giorno del ricongiungimento con l’Amato.

Sulle orme di Chiara e delle sue compagne, innumerevoli donne nel corso della storia hanno abbracciato la stessa Forma di vita, seguendo Cristo povero il cui amore basta a sufficienza a riempire il cuore.

La mistica vocazione nuziale delle vergini consacrate è un segno di ciò che la Chiesa tutta è e sarà per sempre: Sposa di Cristo.

Grati a Dio che ci dona i Santi che parlano al nostro cuore e ci offrono un esempio di vita cristiana da imitare, vorrei concludere con le stesse parole di benedizione che santa Chiara compose per le sue consorelle e che esprimono tutta la tenerezza della sua maternità spirituale: “Vi benedico nella mia vita e dopo la mia morte, come posso e più di quanto posso, con tutte le benedizioni con le quali il Padre delle misericordie benedisse e benedirà in cielo e in terra i figli e le figlie, e con le quali un padre e una madre spirituale benedisse e benedirà i suoi figli e le sue figlie spirituali. Amen” (FF 2856).

Sr. Cristiana Scandura osc

L’incontro tra due assetati. La sete di Gesù e la sete della Samaritana.

 

La sete dell’uomo.

La sete esprime un bisogno naturale che accomuna tutti gli uomini. L’organismo umano ha bisogno di bere acqua per vivere. È dunque una questione di vita o di morte.

Ma c’è una sete ancor più profonda: la sete di amore, di felicità, di senso.

Spesso si cerca di dissetare questa sete attingendo a pozzi inconsistenti, con il risultato che la sete aumenta ancora di più.

Anche nelle scelte sbagliate che si possono compiere, si nasconde il desiderio di colmare questa sete. Ma, dice S. Agostino: “Il nostro cuore è inquieto se non riposa non Dio” la nostra sete rimane inappagata se cerchiamo di estinguerla altrimenti, perché nessuna cosa e nessuna persona può colmarla.

Nel nostro cuore c’è una profonda nostalgia di Dio, alla cui immagine e somiglianza siamo stati creati.

Il dialogo di Gesù con la donna samaritana ha da sempre affascinato artisti e interpreti. L’episodio è ricchissimo di simbolismi, a cominciare dal nome del luogo dell’incontro. Sicàr significa ”qualcosa è intasato”. L’uomo spesso sperimenta di essere intasato, separato dalla sua sorgente. Quella sorgente da cui dovrebbe zampillare nel suo cuore la gioia, la felicità.

Ogni uomo è in cerca della felicità, spesso però egli la cerca in “pozzi” sbagliati, prosciugati, vuoti, che non la contengono.

La prima parte del dialogo tra Gesù e la samaritana ruotano attorno all’acqua, al pozzo e alla sorgente. Tutti e tre i concetti sono immagini di una realtà più profonda: rimandano all’uomo che brama l’acqua atta a spegnere la sua sete, che è principalmente sete di amore.

Qui Gesù parla dell’acqua viva. L’acqua viva è innanzitutto acqua sorgiva in contrapposizione all’acqua stagnante di una cisterna.

Da sempre l’umanità ha sognato un’acqua di vita, una fonte dell’eterna giovinezza, un’acqua che comunichi un sentimento di vita nuovo e sempre giovane, che guarisca le ferite e preservi dalla vecchiaia e dalla morte. Gesù si riallaccia a questo anelito originario dell’uomo e soddisfa quello che l’uomo brama nel proprio cuore: egli dona l’acqua che dà la vita eterna.

Ma in che modo la dona? Non è solo l’acqua battesimale quella a cui Giovanni vuole qui rimandare. Se accogliamo in noi Gesù e la sua Parola, egli diventa per noi l’acqua che risana e rinfresca: egli ci porta a contatto con la sorgente interiore dell’acqua viva che zampilla nella nostra anima, ma da cui spesso noi siamo tagliati fuori.

Alla sete di vita fa seguito il desiderio d’amore. I sei uomini che la donna ha avuto, sono simbolo degli idoli con cui siamo sposati: denaro, potere, sessualità, gloria, ecc… gli idoli però non riescono a colmare ad appagare l’anelito di vita e di amore che il nostro cuore sente e ci lasciano più vuoti e tristi di prima.

Soltanto se ci inginocchiamo davanti a Dio e lo adoriamo raggiungiamo la meta del nostro desiderio. Solo allora il nostro cuore inquieto si placa.

I sei mariti sono immagine della sete di vita inappagata della donna e dell’autoillusione di cui siamo schiavi tutti quanti, come se il nostro anelito infinito potesse essere soddisfatto da persone o da cose. I sei mariti rimandano infine al settimo sposo, a Gesù che sulla croce si lascia squarciare il cuore per dimostrarci il Suo Amore, senza limiti e senza pretese. Un amore gratuito, personale, unico, fedele, che solo può colmare la nostra sete di amore infinito.

Notiamo come durante il dialogo della donna samaritana con Gesù, nel cuore di questa abbia cominciato a zampillare la sorgente di acqua viva di cui le parla Gesù, tanto è vero che essa, lascia la brocca con la quale era venuta al pozzo per attingere l’acqua e corre ad annunciare ai suoi concittadini che ha incontrato il Messia.

La sete di Dio.

Se l’uomo ha sete di Dio, lo sappia o no, e ne è prova che niente e nessuno può appagarlo, anche Dio ha sete dell’uomo, ha sete di me e di te.

“Dammi da bere” (Gv 4, 7) dice Gesù alla Samaritana. “Ho sete” (Gv 19, 28), ripete sulla Croce. Sete della mia e della tua risposta al Suo Amore.

Il Suo Sangue versato sulla Croce non sia vano.

L’Eucaristia è il luogo d’incontro fra due assetati o meglio ancora fra due innamorati. Ma anche quando dedichiamo del tempo alla preghiera che altro non è che incontro con l’Amato, l’Amico, il Fratello, il Signore, lo Sposo, si realizza l’incontro fra due assetati.

Tu hai preso coscienza della tua sete?

Quali sono i pozzi ai quali hai cercato di dissetarti?

Quali di essi ti hanno deluso e dove invece hai trovato la gioia vera e duratura?

Vi abbraccio fraternamente in Cristo:

Sr. Ch. Cristiana Scandura osc

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Il mistero della divina chiamata

IL MISTERO DELLA DIVINA CHIAMATA – Sr. Ch. Cristiana Scandura osc – 6. Meditazione

 “TI HO CHIAMATO PER NOME, TU MI APPARTIENI” (GER 43,1).

La chiamata per nome è tipica di Dio: Dio ha un nome, un volto e cerca il nostro volto, ha un cuore, ci dona il suo cuore aperto sulla croce e cerca però anche il nostro cuore: Francesco è rapito dalle parole che gli rivolge il Crocifisso e nel momento in cui entra in sintonia con la volontà di Dio, rispondendo alla chiamata, inizia per lui un’avventura meravigliosa, un cammino di risurrezione.

La chiamata esprime l’intensità dell’amore di Gesù Cristo, la risposta alla chiamata edifica il Regno di Dio e compie nella persona che risponde la realizzazione della santità cristiana che è adesione al progetto di Dio. Ogni vocazione è un incontro con il Signore e nasce dallo stupore di fronte alla scoperta di essere amati in modo preveniente e gratuito da Dio. La chiamata è un’esperienza profonda dell’Amore di Dio. La prima cosa che dobbiamo fare è dunque quella di accoglierlo con gratitudine. È l’amore che cambia la vita, che dà il tono alla vita, che dà l’impronta e la tempra della fedeltà. È il cuore il luogo in cui si incontra Dio.

VOCAZIONE DEI DISCEPOLI E DEI CRISTIANI

La vocazione è il mezzo mediante il quale Gesù raggruppa attorno a sé i Dodici, ma fa sentire anche ad altri un’analoga chiamata. La Chiesa nascente ha subito inteso la condizione cristiana come una vocazione. La Chiesa è la comunità dei chiamati, tutti coloro che fanno parte di essa, sono chiamati alla santità, ma è importante che ciascuno scopra e occupi il proprio posto in essa, secondo il disegno di Dio. Scrive San Paolo: “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito, vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore, vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12, 4ss) e inoltre: “Dio ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri ancora come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere ciascuno idoneo a compiere il ministero allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4, 11-12).

LA CHIAMATA DEI PRIMI DISCEPOLI (Gv 1, 35-51)

Giovanni ci racconta la chiamata dei primi quattro discepoli e in che modo essi giungono, a poco a poco e in modo sempre più profondo a conoscere Gesù. È un crescendo di titoli con cui i discepoli designano il Nazareno: Agnello di Dio, Rabbì, Messia, Figlio di Dio, Re d’Israele. Poiché i discepoli sono simbolo di noi cristiani, nel loro cammino di sequela di Cristo diventa manifesto il cammino che anche noi dobbiamo percorrere. Una cosa che salta subito agli occhi è che ogni volta i discepoli vengono condotti a Gesù tramite degli intermediari. È un’immagine per noi cristiani, che abbiamo bisogno di altri che ci portino a Cristo. Le parole centrali in questo testo sono: “cercare” e “trovare”, “venire” e “vedere”. Il cammino per diventare discepoli è fatto di queste quattro parole. Si tratta di cercare Gesù seguendo l’anelito del nostro cuore. Se cerchiamo troveremo. Ma poi, arrivati da Gesù, dobbiamo vedere, cioè conoscere chi è in realtà e non basterà una vita per conoscerLo, per approfondire la conoscenza della Sua Persona.

I primi due discepoli seguono Gesù poiché hanno dato ascolto all’indicazione di Giovanni il Battista. Gesù si rivolge a loro e domanda: “Che cercate?”. Gli risposero: “Rabbì (che significa Maestro), dove abiti?”. Qui si racconta in apparenza un dettaglio indifferente; ma l’essenziale si nasconde dietro. La domanda fondamentale riguarda quello che vogliamo, o meglio, ciò di cui andiamo in cerca: “Che cosa cerchi?” Questa è la prima frase rivolta da Gesù ad ogni singola persona che desidera seguirLo: “Tu, con la tua vita cosa vuoi? Qual è il tuo più profondo desiderio?”. Quando entro in relazione con Gesù devo fare chiarezza su questo. Gesù conosce ogni singola persona e guarda sin nelle profondità del suo cuore. Non possiamo avvicinarci a Gesù senza essere messi a nudo dal suo sguardo, senza essere posti a confronto con la nostra verità personale. Nell’incontro con Gesù la nostra esistenza viene illuminata e svelata.

VOCAZIONE DI FRANCESCO D’ASSISI

La gioia di essere chiamati per nome e di rispondere: “Lo farò volentieri, Signore”.

È di fondamentale importanza ribadire che la chiamata non ha in Francesco, in Chiara, in noi, il suo impulso, la sua sorgente, bensì in Dio.  “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15, 16), afferma Gesù. Ogni vocazione è un incontro con il Signore. Vediamo come è avvenuto questo incontro nella vita di Francesco d’Assisi. Francesco viene sorpreso da Dio. Mentre era in cerca di gloria umana, parte per andare a combattere. Ma in sogno il Signore lo induce a tornare indietro, contrapponendo alla gloria umana ricercata da Francesco, una gloria eterna che solo Lui può dare. Quindi è Dio che ha dei progetti su di lui e lo invita a parteciparvi: una sorpresa grandissima che egli ricorderà nella sua ultima volontà, nel Testamento. È proprio quella sorpresa che lo lascia stupito, lo trasforma, lo rende nuovo. Ma la sorpresa più grande fu quella di incontrare Cristo nell’uomo e nell’uomo povero, sofferente e più bisognoso, nel lebbroso. Da quel momento in poi ciò che prima sembrava amaro alla sua natura, gli divenne dolce e viceversa. Il punto decisivo nella sua conversione è l’incontro con il Crocifisso. Ogni vocazione trae origine dall’incontro salvifico con Cristo crocifisso. Mentre è in preghiera Francesco sente le parole di Cristo che gli dice: “Và, Francesco, e ripara la mia Chiesa, che come vedi, sta andando tutta in rovina”. A queste parole Francesco balza in piedi e con tutta la volontà, l’entusiasmo, e lo slancio di cui è capace risponde: “Lo farò volentieri, Signore!”. La conseguenza di questa docilità e obbedienza alla Parola è una mirabile fecondità. Della trasformazione di Francesco infatti si accorgono tutti e moltissimi, da lì a poco, vogliono imitare la sua forma di vita, ancora oggi.

Tu HAI SCOPERTO QUAL E’ LA TUA VOCAZIONE?

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Il mistero della chiamata

IL MISTERO DELLA DIVINA CHIAMATA – Sr. Ch. Cristiana Scandura osc – 5. Meditazione

LA VOCAZIONE, INCROCIO DI SGUARDI

Vocazione è sentirsi avvolti da uno sguardo d’amore e abbracciati dall’Eterno. Ma spesso lo sguardo umano non incrocia quello divino e si ferma solo alle cose di quaggiù. Quando il Signore chiama invita prima di tutto ad entrare in uno speciale rapporto con Lui e solo dopo affida una missione. Nel racconto evangelico del giovane ricco non scatta questa relazione e pertanto va a vuoto anche l’invito del Maestro (Mc 10,17-27). Meditiamo su questo episodio.

“Tutto questo l’ho sempre fatto” (cfr Mc 10, 20).

Il giovane che si avvicina a Gesù sembra lanciatissimo sulla via del bene. Mentre gli altri si accostano al Signore per metterlo alla prova o chiedergli la guarigione dalle malattie, lui invece lo cerca per sapere qualcosa della vita eterna. Il terreno era fertile, dunque, ma anche pieno di rovi pronti a soffocare il seme. Quali rovi? Una certa presunzione, anzitutto, che conduce questo tizio a esibire dinanzi a Gesù la sua osservanza cristallina, da sempre! Una sorta di impeccabilità radicale.

“Gesù, fissatolo, lo amò” (Mc 10, 21).

Gesù coglie la parte positiva di questo giovane, non lo rifiuta, magari facendogli notare la sua presunzione. Il Maestro intuisce ciò che gli manca, che è proprio l’esperienza del Suo amore e gli dà la possibilità di sperimentarlo in diretta e in quel preciso istante. Lo fissa negli occhi con uno sguardo tenerissimo e intensissimo di amore per lui, lui solo, come se in quel momento non vi fosse nessun altro sulla faccia della terra. Perché così ama Dio, quel Padre che sa contare solo fino a uno. Quell’uno è ogni uomo, sei tu… e ogni vocazione è questo abbraccio di amore del Creatore che fissa la creatura, evocando quel progetto della creazione pensato apposta per essa, sulla sua misura, e firmato dall’Eterno! Vocazione è sentirsi avvolti da questo sguardo, quasi abbracciati da esso.

“UNA COSA SOLA TI MANCA…” (Mc 10, 21).

In fondo questo giovane è già a buon punto, gli manca solo una cosa, dice Gesù, rivolto forse anche a noi, che riusciamo sempre a complicarci la vita, pensando che dobbiamo fare chissà che per seguire il Maestro e accoglierne la chiamata. E invece basta una cosa sola, una scelta unica che potrebbe però cambiare tutto e togliere ogni tristezza, perché significherebbe aver trovato l’essenziale, ciò che carica di senso la vita e che nessuno ci potrà portare via; e assieme vorrebbe dire aver identificato ciò che ci trattiene ancora e non ci fa essere liberi di scegliere e di fare scelte anche un po’ folli, nate dalla gioia di quell’abbraccio.

“…va’, vendi… dallo; vieni e seguimi”

Ecco l’unica cosa, anche se declinata in 5 verbi, i primi 3 in direzione interpersonale-orizzontale, gli altri due riguardanti il rapporto personalissimo con Gesù. “Udito questo, il giovane se ne andò triste” (mt 19, 22). L’interpretazione abituale motiva il rifiuto con l’attaccamento alle ricchezze da parte del giovane. Forse però il vero motivo vada ricercato più a monte: questo giovane non si era lasciato raggiungere dall’amore di Gesù, i suoi occhi non avevano incrociato quelli del Maestro che lo fissavano; preoccupato di esibire la propria osservanza della legge non si era accorto di quel gesto di amore proprio per lui. Se ne fosse accorto, o fosse stato libero di accoglierlo, avrebbe scoperto l’assoluta sproporzione tra le sue terrene ricchezze e la ricchezza di questo amore, non avrebbe avuto dubbi sulla scelta e sarebbe stato felice! Certo che poi non ha la forza di fare lo strappo: è solo la certezza di essere amato, che dà energia e coraggio di fare cose che sembrano impossibili. Altrimenti c’è un’unica alternativa: la tristezza o la sensazione di aver buttato via un’occasione unica. È l’afflizione di questo giovane che se ne va sconsolato: giovane molto più triste che ricco. (Continua)

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